mercoledì 18 novembre 2015

Le licenze di software libero (open source)

 
Articolo da Tech Economy
 
A volte alla domanda “sotto quale licenza è questo programma?” si sente rispondere “come, che licenza: ”. Il che è come rispondere “nome maschile” alla domanda “come ti chiami?”. Come direbbero i francesi “vive la  petite différence!

Una licenza è ‒ al fondo delle cose ‒ un testo legale. È anche una dichiarazione programmatica, un manifesto, ma siccome il è un fenomeno giuridico, l’aspetto contrattuale o para-contrattuale è ciò che caratterizza, da molti punti di vista, la licenza. Ovvero, risponde alla domanda “che cosa ci posso fare con il software che sto analizzando?”.

Software libero, software non libero; software open source, software non open source

 
Torniamo alla prima risposta. “È software open source”.
Uso il titolo di una presentazione che diedi qualche anno fa a Firenze, parafrasando un più noto pamphlet di Paolo Rossi (il comico), “Si fa presto a dire open source” (da “Si fa presto a dire pirla”). Per dire che una cosa è open source, occorrerebbe prima sapere cosa distingue l’open source dal non open source, e il software libero dal non software libero. Cosa distingue il software libero dal software open source, l’abbiamo già detto nelle scorse puntate, è l’approccio filosofico: in termini giuridici, nulla. Le due nomenclature sono operativamente intercambiabili, per cui non ci accapigliamo, ognuno usi quella che preferisce, io preferisco dire “software libero”.
Però i due mondi fanno effettivamente riferimento a due differenti definizioni. La definizione di software libero è semplice: è software libero il software la cui licenza soddisfa tutte e quattro le libertà del software, di cui abbiamo già detto la puntata scorsa, quando ci siamo occupati della storia. Se ne manca anche solo una, non è software libero.
 

La Open Source Definition

 
La definizione di cosa sia software open source è un po’ più complessa. Il termine stesso “open source” nasce successivamente al concetto di software libero. Abbiamo già detto che il primo globale e cosciente sforzo di creare software libero come tale appartiene a Stallman e alla Free  Software Foundation, e consisteva nel sistema operativo GNU. Con l’avvento di Linux, GNU divenne un sistema operativo pienamente funzionante. Una delle prime e più “pure” distribuzioni di GNU/Linux fu Debian.
Cos’è una distribuzione? Una distribuzione è un assemblaggio di software proveniente da fonti diverse, da parte di un operatore che sceglie cosa inserire e come configurare tale software (normalmente, una versione di Linux, una certa quantità di software del progetto GNU, un sistema di gestione dei pacchetti per l’aggiornamento e l’installazione di componenti aggiuntive, applicazioni e così via), compila il software a partire dalle sorgenti e lo distribuisce come un prodotto a se stante. Di qui il termine “distribuzione”. Tutto è GNU/Linux, ogni distribuzione è diversa dalle altre, ma anche simile alle altre.
Debian, appunto, è una distribuzione, che si caratterizza per due aspetti: un proprio sistema di gestione dei pacchetti (tutti con il suffisso .deb) e un relativo programma di gestione (apt), e una scelta piuttosto radicale su quali condizioni debbano rispettare le componenti per essere incluse. Si potrebbe dire “devono essere software libero”, ma il progetto Debian preferì articolare meglio tale requisito e “spacchettare” le libertà in caratteristiche più puntuali, che inserì nelle “Debian Free Software Guidelines“.
 In uno sforzo di “vendere” meglio il concetto di software libero, e anche per risolvere una ambiguità del termine “software libero” (che in inglese si dice “Free Software”, dove “free” può anche dire “gratis”) alcuni attivisti e programmatori spinsero per usare un termine d’uso comune che non soffrisse dell’ambiguità “Free Software” = “software gratuito”, ovvero “open source” (“sorgente aperto”). E venne a tal fine fondata la “Open Source Initiative” (OSI) che si diede il compito di “certificare” cosa fosse open source e cosa no. Come riferimento normativo vennero usate le Debian Free Software Guidelines, alle quali vennero rimossi i riferimenti specifici alla distribuzione Debian, che divennero la Open Source Definition.
 

Proliferazione

 
OSI ha nel frattempo approvato un centinaio di licenze diverse. Che non esauriscono affatto l’orizzonte delle licenze possibili. È un numero enorme, ed averne così tante è un problema. Se avessimo poche licenze, con clausole in gran parte identiche e qualche clausola difforme, costruire una interpretazione solida e affidabile, che ricostruisca con una certa qual certezza le conseguenze giuridiche di ciascuna licenza e le condizioni alle quali tali licenze possano essere usate assieme, avremmo un mondo più semplice.
Invece abbiamo licenze che in larga parte sono simili tra loro (appartengono solitamente a una delle grandi famiglie, di cui diremo), ma con differenze che possono a volte determinare ambiguità, passare inosservate e ‒ quel che è peggio ‒ causare incompatibilità reciproche, soprattutto quando si passa al copyleft. Seguendo le discussioni sulle nuove proposte di licenze all’OSI ci si rende conto che in larga parte l’esigenza che tali licenze soddisfano sono o l’ego di chi le propone, per avere il proprio nome legato a una licenza (che poi non userà quasi nessuno) oppure… l’ego di chi le propone, che pensa che le centinaia di menti che collettivamente hanno sviluppato quelle esistenti e adottate dalla maggior parte del software siano degli incompetenti. Solo in alcuni casi, alcune licenze servono a soddisfare esigenze specifiche e sono in parte giustificabili, nella maggior parte dei casi la mia opinione è “meno è meglio”. Nel dubbio se usare una licenza e scriverne una, contare fino a diecimila e poi comunque abbandonare l’idea. Parlo come autore di una licenza sottoposta e mai approvata (a ragione) da OSI (la licenza MXM, sviluppata con Leonardo Chiariglione per MPEG).
 

Le famiglie delle licenze: divisione tra vari livelli di copyleft

 
Dicevo, esistono grandi famiglie di licenze, che coprono da sole la gran parte del software. Il resto è “coda lunga” (long tail), traducibile anche con “rumore di fondo”: poco rilevante, ma sempre rumore.
Uno degli aspetti più importanti delle licenze, il primo che ricerco in una nuova licenza, è: “quanto copyleft?”. Solitamente si definiscono tre livelli di copyleft, nel software: copyleft forte, copyleft debole, nessun copyleft. Nessuno è in grado di definire con precisione dove inizia uno e finisce l’altro, teniamo queste distinzioni come categorie di massima.
 
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Fonte: Tech Economy


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Articolo tratto interamente da Tech Economy
 

1 commento:

  1. Non sono una esperta ma diversi Hackintosh fatti in casa e funziona benissimo! Lo so, i programmi open source sono un'altra cosa... Ma io sto dalla parte di chi pensa che se vivessimo in un mondo onesto non ci sarebbe bisogno di licenze, brevetti e.. SIAE (come della proprietà privata, vera e propria rovina della civiltà..) e che se in ambito pubblico e statale fossero obbligatori i programmi open source ci sarebbe un bel risparmio per tutti noi cittadini e forse più efficienza!

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