giovedì 9 aprile 2015

L’Aquila: quale ricostruzione?

L'Aquila, Abruzzo 2014

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di Valerio Valentini
 
Il ragazzo che cammina qualche metro davanti a noi avrà più o meno la nostra stessa età. Si volta ripetutamente, con nervosismo, sforzandosi di farlo sembrare un gesto casuale; poi gira a sinistra, affretta il passo. Convinto che il buio del vicolo lo renda ormai invisibile, si abbassa la lampo dei pantaloni e urina contro il muro. Il muro, in realtà, è la facciata laterale della Chiesa di Sant’Agostino, che dopo il terremoto del 1703 fu ricostruita da Giovan Battista Contini, allievo del Bernini, e che prima del terremoto del 2009 era conosciuta da molti, in città, soprattutto per esser stata trasformata in un piccolo teatro.

Io e la mia amica passiamo oltre, proseguendo lungo Corso Federico II, e prendiamo la traversa successiva, Via Cesare Battisti, che ci immette in quella che era la Piazza della Prefettura. Il ragazzo che ci camminava davanti resta stupito nel vederci uscire da quella via. Si ferma, poi torna indietro, e in pochi secondi scompare, stavolta davvero, nel buio.

«Allora, ti piace l’albero?» mi chiede la mia amica, indicandomi un grande abete illuminato in maniera irregolare con delle luci natalizie che dovrebbero riprodurre dei fiocchi di neve cadenti, ma che producono uno strano effetto psichedelico riflettendosi sull’acciaio dei puntellamenti degli edifici intorno.

«Un po’ pacchiano – rispondo – E a te piace?».

Lei alza le spalle, tenendo le mani nelle tasche del cappotto.

«Ma tutte queste gru illuminate?» rilancio.

«Ah, non lo sai? È un progetto del Comune: durante le vacanze, tutte le gru dei cantieri del centro storico vengono illuminate. Sembra che siano più di cento».

«E a te piace, l’idea?».

Stessa alzata di spalle di pochi secondi fa, stessa espressione scettica sul viso: «Bah, data la situazione, direi che non è male».

Una parte di Piazza della Prefettura sarebbe «zona rossa», dunque inaccessibile; ma le transenne sono tutte sbilenche, ci si sfila facilmente. Le oltrepassiamo, facciamo un giro guardandoci attorno – guardando le impalcature che coprono la chiesa di San Marco, i pannelli di legno usati come pezze (questa è l’immagine che salta in mente a due profani di architettura) per tappare le crepe dell’ex Palazzo del Governo – e stando attenti a non inciampare sui tubi di metallo, sulle travi di legno e su altri vari attrezzi, più o meno ingombranti, lasciati lì in attesa che riprendano i lavori. Proseguiamo lungo Via Indipendenza, passando dietro a quella che è la nuova prefettura: un palazzo ristrutturato con gusto moderno, che col suo rivestimento in piastre di marmo e col suo alluminio fa quel che può per inserirsi nella parte meridionale dei portici della città, di stile razionalista, senza risultare un obbrobrio. Ma è soprattutto sul retro che il rosso porpora dei suoi intonaci, la perfezione dei suoi infissi smaltati, l’efficienza delle sue telecamere di sicurezza, provocano un indefinibile senso di stridore, a contatto col marciume che si mangia tutto il resto.
 
Giriamo a sinistra. Una passerella di legno sovrastata da una galleria di tubi innocenti d’acciaio segna l’inizio di Via Simeonibus. Il buio è totale, ci aiutiamo con le luci dei cellulari.
«Ma dobbiamo per forza passare da qui? – protesta la mia amica – Sarà pieno di topi».
Si rassegna e mi segue. Avanziamo con difficoltà, in silenzio, e quasi non ci accorgiamo di passare davanti a dei portali in pietra, dalla forma inconsueta. Resto dubbioso qualche secondo, poi le riconosco: sono le cancelle quattrocentesche, le vecchie botteghe che un tempo si affacciavano sulla piazza del mercato, Piazza Duomo. Si chiamano così, cancelle, perché nella loro antica sistemazione erano protette da cancellate di ferro, allo scopo di arginare la folla che si accalcava per poter comprare il pesce fresco, o presunto tale, cioè quello che dal lago del Fucino veniva portato in città dopo un viaggio non propriamente breve. Negli anni venti del ‘900, quando sembrò sconveniente che proprio di fronte alla cattedrale si svolgesse una così poco decorosa scena, si decise di sostituire il mercato del pesce con un più monumentale palazzo delle poste, che costrinse a trasferire le cancelle nella via retrostante. Via Simeonibus, appunto.
Ogni cancella ha due aperture: una è una sorta di davanzale rialzato, che serviva come banco di esposizione della merce, e l’altra è la porta da cui il proprietario della bottega entrava e usciva. Le porte, però, adesso non ci sono: dentro i locali sta riversa una massa disordinata di mobili scassati, di scatoloni vari, di oggetti indistinguibili nel buio, tutti coperti dalla polvere. L’odore di muffa prende alla gola.
«Esci da lì, ché non è sicuro – la mia amica mi strattona – E nemmeno questo posto è sicuro. Non è che ci stiamo perdendo?».
Proseguiamo lungo la stessa via, percorrendola fino in fondo.
«E ora? Dove siamo?».
«Dunque, ora … – mi sforzo di ostentare una calma che non ho – Piazza Duomo non dovrebbe essere lontana. Se noi andiamo dritti, poi dovrebbe esserci una stradina sulla destra …»
«Ma questo non è l’arcivescovado? – mi interrompe lei – Questa è Piazza Duomo».
Ci mettiamo entrambi a ridere: attribuiamo la colpa del nostro disorientamento al buio, al freddo, alla paura che da qualche porta sbucasse qualcosa o qualcuno. Ma sappiamo entrambi che non è così, che in realtà cominciamo a dimenticare i luoghi dove ogni giorno camminavamo – quasi sei anni fa. Lo sappiamo, ce lo confermiamo a vicenda guardandoci negli occhi, ma non diciamo niente.
È sabato sera, 3 gennaio 2015: e a L’Aquila, in Piazza Duomo, non c’è nessuno a parte noi due. Solo ora mi accorgo dell’insistenza di un rumore che ci accompagna da quando siamo arrivati: un ticchettio metallico, fastidioso. La neve, che nei giorni scorsi si è depositata sui tetti, sciogliendosi gocciola sulle mantovane dei ponteggi, quelle che servono ad evitare che qualche sasso cada in testa ai passanti. Resto alcuni secondi con lo sguardo per aria, senza parlare.
«Non odo parole che dici umane» scherza la mia amica, cercando di distrarmi dalla mia contemplazione.
«A te non irrita, questo rumore?» domando.
Lei spalanca gli occhi, si stringe di nuovo nelle spalle, in un movimento quasi automatico, che mi irrita. «Muoviamoci, ché gli altri ci stanno aspettando» si limita a dire.

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Autore: Valerio Valentini


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3 commenti:

  1. Caro Vincenzo, mi interessa se si parla di L'Aquila, perché andrò all'adunata nazionale degli alpini il 16 e 17 maggio, sono veramente curioso di vedere che cosa è stato fotto fino ora.
    Ciao e buona giornata caro amico.
    Tomaso

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  2. creso che non ci siano davvero più parole per esprimere la vergogna di questa vicenda

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  3. Che gran brutta storia questa dell'Aquila. Purtroppo mi sembra ricalchi altre storie italiane.

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